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Cesare Bruno ha confezionato nelle sue tele una specie di commedia ironica. La interpretano gruppi di seggiole, o meglio i vari aspetti di una seggiola. Ma il soggetto, nel caso di Bruno, ha poca importanza. Si tratta di un personaggio visto, squadrato, rovesciato, "fotografato" di faccia e di profilo: uno, nessuno, centomila, come il celebre lavoro di Pirandello.
La breve teoria della vita è, per ognuno, più contradditoria varia e incoerente, che lunga; più intensa, che estesa. Come, in chi, in che cosa riconoscerci? Ma la mostra di Bruno non si esaurisce in queste domande.
L'autore, trovata la strada, si diverte a complicare le cose, quasi approfitta di ipotetici specchi: gioca con le sue seggiole, pensando a vertiginose strutture. E vi riesce, regalandoci il brivido del capogiro. ll gioco è chiaro, diventa metafisico; la magia si scopre ma non per questo svanisce. Lo strano esorcismo si ripete quando Bruno si impegna in chiese, case, alberi, riproposti alle dimensioni della didascalia. ll vuoto sembra ingoiare queste immagini ridotte a piccolissime cose. Gli spazi si aprono e si richiudono come freddi, ma inebrianti richiami dell'occhio.
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